Quando parliamo di volontariato, di solito, pensiamo tutti a un volontariato di tipo tradizionale, quello per cui persone generose dedicano tempo ed energie a emergenze e bisogni sociali quali migranti, anziani, disabili.
Ma c’è anche un altro volontariato, più nascosto e meno appariscente: quello di chi cerca di intervenire non direttamente sulla singola emergenza, ma sulle sue cause. Troppo spesso, infatti, i volontari hanno svolto un ruolo di supplenza per conto dello Stato, di fatto finendo per esercitare una delega in bianco su un problema che tende, così, a ripresentarsi ciclicamente.
È proprio di questi giorni il Nobel per l’economia ad un economista scozzese che sostiene la nocività di donazioni filantropiche a Paesi in via di sviluppo, di cui finiscono per drogare le economie senza risolvere le questioni strutturali.
La nuova forma di volontariato in alcun modo deve sostituire quella tradizionale, ma semplicemente affiancarla: il volontariato tradizionale, infatti, è imprescindibile perché ogni emergenza richiede, innanzitutto, una risposta immediata.
C’è però un altro passo avanti che il volontariato ha bisogno di fare, anche questo prima di tutto culturale. Riguarda i soldi. Per taluni volontari è quasi argomento tabù: non vogliono occuparsene. Solo che, poi, per fare molte delle loro attività i volontari hanno bisogno di soldi. E si ritrovano a chiederli o al Comune (o altra Istituzione) o al filantropo di turno. Ma i filantropi hanno la fila di persone che chiedono donazioni, mentre l’Istituzione pubblica non ha più soldi. O meglio, non ha più tanti soldi come in passato. E non soltanto in Italia.
Urge, quindi, pensare a nuove forme di finanziamento “sostenibili” per questa nuova fase storica.
C’è un’altra variabile di cui bisogna tener conto per un quadro completo sulle politiche sociali: le previsioni che circolano per i prossimi anni. Secondo istituti autorevoli come Oxford Economics, la spesa per bisogni sociali incomprimibili (acqua, educazione, salute, etc…) sono destinati a crescere esponenzialmente in tutta Europa, particolarmente in Germania e Regno Unito.
Trattandosi di bisogni incomprimibili, gli Stati non possono non trovare un modo per provvedervi, pena conflitti sociali che, oltretutto, aggiungerebbero altri costi, oltre a minare la coesione sociale. È per questo che proprio dal Regno Unito è partita la ricerca di modelli di sviluppo e di finanziamento nuovi e sostenibili.
Il risultato è quello che viene chiamato Social Impact Innovation. Anche in Italia se ne sente parlare, ma in termini solo di innovazione sociale, e non di innovazione a impatto sociale. La differenza non è da poco. Fare politiche sociali a impatto vuol dire affrontare non la singola emergenza – ad esempio, i migranti – per far fronte a quella, ma fare in modo che l’impatto sia positivo per l’intera comunità.
Perché questo sia possibile, l’innovazione – e quindi lo sviluppo – hanno bisogno di forme di finanziamento innovative, che superino i limiti del pubblico e del privato. La risposta sta in un’altra formula, meno conosciuta dell’altra, che è il Social Impact Investing.
Il termine è stato coniato da Rockfeller Foundation e da J.P. Morgan. Le banche di affari, infatti, si son trovate a risolvere un problema per i loro clienti: quello di diversificare portafogli di investimento caratterizzati dalla ricerca di alti profitti, ma proprio per questo penalizzati da un’alta volatilità. Possono guadagnare tanto e velocemente, ma con crisi finanziarie come quella del 2008 possono anche perdere tanto e altrettanto velocemente.
Tenendo conto anche della propensione alla filantropia di molti investitori, il tentativo è stato quello di investire una piccola percentuale di quei portafogli in progetti mirati sui bisogni sociali incomprimibili nei Paesi in via di sviluppo. I risultati sono stati sorprendenti: mentre tutti gli investimenti private davano segno meno, questi hanno mantenuto sempre un segno positivo, oltretutto in lieve e continua crescita. Naturalmente, i rendimenti di questa tipologia di investimenti sono minori e i tempi di realizzo più lunghi, ma, essendo decorrelati ad esempio dal rischio Paese, stanno riscontrando la soddisfazione di molti investitori.
Nel tempo ci si è accorti che quel tipo di investimento può rendere anche nei Paesi a economia sviluppata, come quelli europei, e per questo l’interesse è cominciato anche da noi.
Il volontariato non sia diffidente, ma attento e aperto: si tratta di strumenti complessi ma con principi semplici.
Innanzitutto, pubblico e privato non sono più visti come alternativi, e tanto meno contrapposti: il privato non è migliore del pubblico. Sia perché il privato fa un altro mestiere che non quello del perseguimento del bene comune; sia perché anche nel privato si nascondono non poche sacche di corruzione.
Dunque, i nuovi strumenti di finanza innovativa a impatto sociale mettono insieme più attori: l’istituzione pubblica, l’investitore privato, il filantropo, la no-profit, il valutatore. Nessuno di loro può pensare di far fronte ai bisogni sociali dei prossimi anni da solo e allora, per essere più efficaci, devono progettare e finanziare insieme, con lo scopo di produrre un impatto sociale significativo.
In poche parole: lo Stato mette a disposizione una somma inferiore a quella che in passato ha dedicato, supponiamo, al problema di recuperare spazi pubblici in disuso e degradati e, anziché spenderli li mette a garanzia del denaro che investe il privato in modo che quest’ultimo possa contare sul rimborso del capitale anche nel caso che il progetto si areni o fallisca.
Anche il filantropo – che può essere, ad esempio, una Fondazione bancaria- anziché spendere denaro, lo stanzia a garanzia dell’investimento privato.
Gli organismi no-profit svolgono il servizio progettato all’interno di quelli spazi, ad esempio per per gli anziani non auto-sufficienti o per uno spazio dedicato ai bambini, e il valutatore esterno e indipendente valuta la corretta realizzazione del progetto.
Da dove viene il rendimento del capitale privato investito? Dall’attività realizzata: il bene pubblico recuperato può essere dedicato parte a un museo gestito da giovani delle liste di collocamento, in parte per un centro anziani, parte a un doposcuola, e così via: facendo pagare un biglietto di ingresso basso o molto basso, quello andrà, nel tempo, a remunerare il capitale investito.
Il valutatore misurerà la realizzazione, la correttezza e l’impatto del progetto, perché anche su questo la filantropia e il volontariato devono cambiare mentalità: deve essere misurata efficacia del denaro donato.
L’impatto si capisce è maggiore che non il semplice recupero di un bene pubblico in disuso che si stava avviando al degrado: il quartiere diventa più gradevole, più vivibile, più animato, più ricco, più sicuro.
Questo è un esempio, ma i casi di applicabilità dei Social Impact Investing sono molteplici. Si tratta solo di cominciare.