RIPRESA E INVESTIMENTI A IMPATTO SOCIALE:
il primo cambio di passo deve essere del Terzo Settore
Da più parti si stanno levando richieste al Governo perché spinga sugli investimenti a impatto sociale per una ripresa post-Covid all’insegna della sostenibilità ambientale e sociale. La stessa richiesta va però indirizzata anche ad altre due categorie di soggetti.
Innanzitutto, alle banche, il cui portafoglio di prodotti per il terzo settore non ha ancora incluso in misura adeguata quei titoli di solidarietà introdotti dalla Riforma del terzo settore nel 2016. Strumenti finanziari innovativi, pensati per attivare gli oltre 4.600 miliardi di risparmio privato, che costituiscono la vera ricchezza italiana e che si stanno sempre più orientando verso investimenti green e social. Del resto, questa è la direzione sostenuta con forza anche dall’Unione Europea, con l’approvazione del cosiddetto Green New Deal e l’istituzione del Fondo europeo per l’innovazione e l’impatto sociali, gestito dal Fondo europeo per gli investimenti (FEI).
In secondo luogo, la richiesta di un’apertura agli investimenti a impatto sociale va rivolta anche – e anzi soprattutto – al terzo settore, che dovrebbe essere il primo a capirne la portata innovativa e che spesso, invece, continua a mostrarsi diffidente, se non addirittura avverso.
Ci piaccia o no, il volontariato vecchia maniera non basta più. La crescita esponenziale dei bisogni – si pensi, in primis, alla povertà – ci obbliga a ripensare l’idea stessa di politiche sociali: non più circoscritte a interventi emergenziali per tamponare le continue falle del welfare, ma ampliate all’ambizione di agire sulle cause dei problemi, siano essi inerenti disabili o migranti, tossicodipendenti o carcerati. Un’idea di politiche sociali, dunque, da affrontare anche come politiche economiche, in cui le risorse finanziarie spese per il welfare non siano più un mero costo, ma diventino occasione di sviluppo economico per l’intera comunità.
Il legislatore italiano questo lo ha capito già nel 2016, con l’approvazione della suddetta Riforma, e ciò nonostante, ancora oggi troppe organizzazioni del terzo settore mostrano una chiusura, talora aprioristica, verso le novità da essa introdotte, così come verso quel “movimento di fatto” che in tutto il mondo sta sperimentando i cosiddetti Social Impact Investments.
Eppure, il nostro Paese è ricchissimo di progetti sociali, molti di grande valore. Ma con un punto debole: la scarsa attenzione alla loro sostenibilità finanziaria. Oggi, però, l’innovatività non può consistere solo nell’idea, ma deve estendersi anche alle modalità di finanziamento.
Perché, allora, nel terzo settore persiste tanta diffidenza verso gli investimenti a impatto sociale? Forse, perché è più facile per tutti ricorrere a metodi di finanziamento tradizionali, continuando a bussare alle porte del Comune o della Regione, oppure a quelle di una fondazione bancaria o di un ricco filantropo?
Ma questo approccio oggi non può più funzionare: da un lato, perché i soldi pubblici stanno progressivamente diminuendo a fronte di bisogni crescenti; dall’altro, perché è irrealistico pensare che i filantropi possano farsi carico delle tante proposte progettuali che in Italia competono per farsi finanziare, in una sorta di insana competizione tra no-profit che rischia persino di svilirne il valore. Le stesse fondazioni bancarie non dispongono più delle risorse del passato e, in ogni caso, non riescono a raggiungere tutti i territori.
Ecco perché abbiamo tutti il dovere di provare a misurarci con strumenti innovativi anche dal punto di vista finanziario: non sono tutte diavolerie di una finanza “brutta e cattiva”, come qualche associazione continua a pensare, ad esempio, a proposito, dei social bond, salvo poi tornare a battere cassa dall’assessore o dal filantropo di turno.
Perché, invece, non imparare a distinguere tra strumenti finanziari “buoni” e strumenti finanziari “cattivi”? Progettare e basta è un lusso che oggi non possiamo più permetterci: è il momento che anche i volontari imparino a misurarsi con la ricerca di nuove vie di finanziamento. Basta ispirarsi ai (pochi) casi di veri investimenti a impatto sociale realizzati in Italia e da lì cominciare a sperimentarli su vasta scala.
Dobbiamo farlo, se vogliamo incidere davvero sul cambiamento e diventare un pungolo costruttivo per i governi di ogni livello territoriale.