Il percorso sulla social impactinnovation è cominciato per la capacità di visione di pochissimi, ormai diversi anni fa, quando sembrava solo una formula astratta e persino velleitaria.
Oggi, invece, sembra che tutti si siano scoperti innovatori sociali: le banche, le aziende, i filantropi. Come se fosse scoppiata una moda dalla quale nessuno vuole restare fuori. Qualche diffidenza, pertanto, è inevitabile e, anzi, doverosa. Soprattutto quando si scopre che a rappresentare la bandiera della social impact innovation in Italia sono spesso quegli stessi che da sempre occupano posizioni privilegiate e che il sociale, in vita loro, lo hanno fatto per lo più comodamente seduti in salotto.
Esattamente come intuito e ironicamente rappresentato nel film “Come un gatto in tangenziale”, in particolare nella scena in cui Paola Cortellesi, che “era” il sociale, si ritrova l’unica con gli zoccoli, ospite fuori luogo di personaggi cortesi ma un po’ snob, che, rigorosamente scalzi, discutono di massimi sistemi seduti davanti al mare di Capalbio.
Dall’altro lato, però, non si giustifica neppure l’atteggiamento talora ostile dimostrato sul social impact da alcune associazioni di volontariato, in cui fondatori carismatici e semplici volontari si irrigidiscono anche solo a sentire parlare di finanza. Come se i soldi fossero una cosa sporca e come se, poi, non fossero soldi quelli che loro stessi accettano in donazione per le meritevoli attività svolte.
L’innovazione a impatto sociale, invece, è un tema che chiama tutti al confronto, perché può segnare una rivoluzione nell’approccio alle politiche sociali ed economiche, da pensare non più separatamente, ma le une parte integrante delle altre. Una rivoluzione necessaria a fronte della carenza progressiva di risorse disponibili, da un lato, e della crescita esponenziale del numero di poveri, dall’altro.
Per fare un po’ di chiarezza va detto, innanzitutto, che oggi in Italia si sta provando a fare innovazione sociale, ma non innovazione a impatto sociale. E quella parola – impatto – fa davvero la differenza. I confini delle povertà, infatti, così come dell’emarginazione sociale e del degrado delle periferie, sono talmente estesi, oggi, che non basta più intervenire sulla singola emergenza.
Occorre, piuttosto, pensare e sperimentare interventi che nell’affrontare, per esempio, il tema povertà creino occasioni di ricchezza con nuovi posti di lavoro, rivitalizzino immobili pubblici abbandonati, riportino attività e persone in quartieri degradati e insicuri.
Questa è la differenza che la parola “impatto” può fare: ampliare gli effetti di un progetto sociale, in modo che tocchino non solo una categoria di cittadini e di disagio, ma portino benefici, diretti e indiretti, a tutta la comunità.
Si tratta, come è evidente, di progetti, se non difficili, certamente complessi sia perché richiedono anni, sia perché coinvolgono molti soggetti: le istituzioni pubbliche, il privato no-profit, il privato profit, l’ente finanziario, il valutatore.
Vale la pena, però, provare, se non si vuole restare chiusi entro i confini sempre più ristretti delle donazioni a fondo perduto, che sono importanti, ma che portano poco lontano: denaro pubblico o privato che basta appena a ristrutturare l’ennesima casa cantoniera, aprirne i battenti con volontari sorridenti, strappare qualche titolo di giornale, per poi, dopo qualche anno, ritrovarsi ad assistere al nuovo declino dell’immobile per mancanza di nuove risorse.
Perché questo non accada non basta più solo parlarne. È diventato, anzi, decisamente intollerabile il pullulare scoordinato e autoreferenziale di eventi, articoli sui giornali, corsi e scuole, che ha invaso il tema del social impact e della lotta alle povertà.
È evidente, infatti, la scollatura tra chi continua a organizzare eventi e chi fatica quotidianamente con l’ennesimo disperato che bussa alla porta: i primi che pensano di poter insegnare ai secondi e viceversa. Mentre è evidente che entrambi i contributi sono essenziali purché imparino a intrecciarsi.
Sono diventati troppi quelli che si offrono solo di modellizzare progetti innovativi senza volerne fare parte: fra qualche anno, forse, sarà possibile, ma non adesso. Adesso siamo ancora all’abc. Siamo alla fase in cui i progetti vanno costruiti insieme, chi teorizza e chi mette in pratica. Non si può stare seduti alla scrivania a valutare iniziative che si fanno sul campo.
Dopo, solo dopo, le strade si distingueranno, ma ora è il tempo in cui tutti dovrebbero sporcarsi le mani, partendo da progetti locali, fortemente radicati sui territori, affinché l’innovatività dell’approccio dell’impatto entri nella cultura e nella quotidianità di tutti. La dimensione nazionale dei progetti verrà, anch’essa, dopo. Dopo quella sperimentazione in piccolo che deve essere fatta con l’intenzione di renderla replicabile e, allora sì, portata su scala nazionale.
In Toscana stiamo provando a farlo, con fatica e determinazione, grazie anche alla Riforma del Terzo Settore: Regione Toscana, Caritas, Fondazione Etica, Confindustria, una banca e ora anche Fondazione Italia Sociale.
Ci sono voluti due anni di lavoro solo per metterci insieme tutti attorno ad uno stesso tavolo, su uno stesso progetto, per creare un comitato promotore locale e, soprattutto, trovarsi d’accordo sulla volontà di innovare il modo di fare sociale, trasformando in occasione di sviluppo anche economico la rigenerazione di un immobile regionale in disuso. Non puntiamo all’ennesima best practice, ma ad una contaminazione positiva nel Paese.
(Articolo di Paola Caporossi – Huffingtonpost.it, 22/1/2019)