C’è qualcosa di irritante nella stanca ripetizione, nel dibattito politico ed economico, del tradizionale mantra secondo cui “occorre far ripartire i cantieri per rilanciare la crescita economica nel nostro Paese”.
Tutti, anche senza essere seguaci di Keynes, convengono sul fatto che i lavori pubblici possano attivare crescita economica e che, quindi, si debba procedere senza indugi alla riapertura dei “cantieri”. Tuttavia, non guasterebbe se il semplicismo di queste affermazioni, troppo condivise per non celare trappole, venisse circondato da qualche cautela e da qualche utile precisazione sul “cosa” e sul “come”, per attivare un dibattito pubblico reale sulle scelte collettive.
Il “cosa”, innanzitutto. La genericità degli appelli sui “cantieri” sembra dare per scontato che quelli utili coincidano con le cosiddette “grandi opere”, finanziate dallo Stato a piè di lista: principalmente strade e autostrade, più raramente ferrovie. Si torna, così, a parlare dell’autostrada tra Mantova e Cremona e magari del Ponte sullo Stretto di Messina.
Quasi mai, invece, per “grandi opere” si intendono opere di “grande utilità”, quali il rafforzamento, l’accelerazione e il completamento di vie ferrate già esistenti e con tutta evidenza necessarie: dai binari unici del pendolarismo pugliese al raddoppio della Palermo-Catania all’alta capacità Napoli-Bari.
Quest’ultima, che collegherebbe circa il 75% della meccanica meridionale, giace come una promessa sin dai finanziamenti disposti dal governo Monti, ormai quasi dieci anni fa. Eppure, il video amatoriale con i ragazzi che giocavano a pallone indisturbati sulla Brebemi deserta qualcosa avrebbe dovuto insegnare a Paese che ha un non invidiabile record di impermeabilizzazione viziosa del suolo, con l’inevitabile contorno di dissesto idrogeologico e rischi naturali.
In spregio di quel paesaggio (valore costituzionale, ricordiamolo qualche volta) e qualità della vita, che hanno fatto da sempre la fortuna dell’Italia. Prima degli investimenti pubblici a mancare è la visione strategica da parte dello Stato, che rischia di ridursi, ancora una volta, a ufficiale pagatore, muto.
Uno Stato che sembra scordarsi che quasi un decimo dei suoi Comuni ricade nell’area di maggiore rischio sismico: ogni scossa, anche non devastante, può portare il carico ormai ricorrente di morti e perdite di patrimonio, laddove, invece, una sensata opera di prevenzione porterebbe a riqualificare luoghi, a rilanciare “aree interne” del Paese, oltre a evitare dispendio di vite umane.
Uno Stato che finge di non vedere come le mille operazioni, disperse sul territorio, di riqualificazione di immobili sequestrati alla mafia ricadono, poi, rapidamente nel degrado, semplicemente per la mancanza di una visione di medio-lungo periodo. È così che tante micro operazioni di salvaguardia del patrimonio costruttivo diventano spesso fondi buttati, in attesa del successivo rifacimento.
Gli investimenti pubblici sono stati spesso guidati da una visione contrabbandata come “liberale”, ma che del liberalismo correttamente inteso non ha proprio nulla: nessun dibattito pubblico sulle scelte di comune interesse, nessun vincolo di razionalità delle decisioni, nessuna capillarità a cointeressare individui e collettività locali a lavori dal certo ritorno in termini di sicurezza, vivibilità, attivazione di microsistemi economici territoriali.
Essere liberali non è certo un obbligo, ma almeno la scarsità di risorse pubbliche imporrebbe al nostro Paese di imparare da pratiche in voga ormai in più della metà del mondo – guarda caso la più avanzata – all’insegna della finanza compartecipata, sia in termini di partenariato pubblico-privato (cosiddetto PPP) per le infrastrutture, sia di finanza a impatto sociale. E qui sul “cosa” si interseca il “come” degli investimenti pubblici, tanto evocati.
Alla progressiva diminuzione di denaro pubblico corrisponde, oggi, una crescita abnorme di liquidità privata. Fondi istituzionali e fondi di private equity sono alla ricerca di investimenti non più solo rapaci: investimenti cosiddetti pazienti, che potrebbero rispondere alla forte domanda pubblica di infrastrutture sociali (ospedali, asili, campi sportivi, etc.), comune a tutti i Paesi europei, nei quali ha preso due nuove strade.
La prima: operazioni di PPP a medio/lungo termine, su cui la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) spinge da anni e grazie alle quali la Gran Bretagna ha finanziato la metà delle sue opere pubbliche. Il privato mette i capitali e il pubblico paga un canone annuo.
La seconda: il social impact investing. Avviato anch’esso in Gran Bretagna, ha introdotto strumenti finanziari innovativi, come i social bond (o titoli di solidarietà), mirati a investire in progetti sociali che abbiano capacità, nel tempo, di auto-sostenersi. Il sociale non più sinonimo di spesa improduttiva, ma occasione di sviluppo economico.
La leva finanziaria pubblica, in questa prospettiva, cambierebbe a sua volta pelle, diventando un volano, co-finanziatore o garante di investimenti valutabili nell’impatto e finalizzati, per esempio, alla messa in sicurezza di territori così come al rifacimento di scuole.
Si può sperare che un dibattuto pubblico imbarbarito abbandoni la genericità degli appelli alla finanza pubblica “a fondo perduto” e accetti la sfida di un nuovo ruolo del pubblico e del privato?
(di Paola Caporossi e Giovanni Vetritto, pubblicato su Huffington Post – 4 febbraio 2019)