di Giovanni Vetritto
Direttore Generale Presidenza del Consiglio dei Ministri
Sono grato a Fondazione Etica che ha ritenuto meritevole di ripubblicazione, in relazione ad alcune circostanze di stretta attualità, un mio intervento convegnistico del 2014, a suo tempo pubblicato da Eticapa, una rivista on line animata da dirigenti e funzionari pubblici ancora pensosi e responsabili rispetto alla deriva disfunzionale dell’amministrazione pubblica nel suo complesso.
In quel convegno si ragionava di spending review, norme di revisione della disciplina di contabilità e proficuità della spesa. Confondendo regolarmente, come accade di continuo nei discorsi di certi politici, quel che l’amministrazione “costa” e quel che l’amministrazione “spende”.
Antesignano di questa confusione è un volume di straripante successo di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella di ormai diversi anni fa; volume nella tesi di fondo pure condivisibile come denuncia, ma infarcito di paragoni implausibili e veri e propri errori. In un passaggio del volume si paragonavano i “costi” di Palazzo Chigi e del n. 10 di Downing Street; senza considerare, ovviamente, che la Presidenza del Consiglio italiana “spende”, in quanto responsabile di servizi diretti ai cittadini, moltissime risorse che in gran Bretagna sono appannaggio di agenzie centrali o governi locali: dalla protezione civile, con tutto il suo armamentario scientifico e di sale operative, ai diversi piani straordinari per l’incremento degli asili nido dell’ultimo decennio.
Una impostazione erronea del problema ha ovviamente reso fallimentari ormai almeno tre o quattro esperienze di Commissari alla spending review, personalmente anche capaci e motivati. Ma non ci si può meravigliare del fallimento della loro esperienza se nel frattempo si ritiene opportuno mettere per legge un tetto alle spese per la modernizzazione tecnologica delle amministrazioni in piena rivoluzione digitale, bloccare per decenni il turnover del personale invecchiando saperi e competenze degli addetti, inseguire per settimane il fantasma di auto blu che a Roma non esistono praticamente più.
Se si vuole ribilanciare l’equilibrio a favore di ciò che l’amministrazione “spende” alleggerendo le voci di ciò che l’amministrazione “costa” occorre una revisione organizzativa coraggiosa, che implica inevitabilmente un investimento iniziale; ogni operazione di downsizing aziendale richiede un simile passaggio per avere risparmi a regime. L’innovazione della macchina pubblica passa per l’abbandono di un modello organizzativo ottocentesco e un ingresso deciso nel terzo millennio della multilevel digital governance; che a sua volta postula uno svecchiamento del personale (e in particolare della dirigenza).
Si è preferito invece per diverse legislature abbracciare una politica della lesina che non ha ridotto significativamente né la voce complessiva della spesa pubblica né (ciò che è ancora peggio) il rapporto tra ciò che l’amministrazione “costa” e ciò che “spende”.
E ancora, con l’Italia ormai buona ultima in Europa per numero di dipendenti pubblici (tanto in percentuale della forza lavoro attiva che per numero di cittadini serviti da ciascun burocrate) ci si meraviglia dello scarso rendimento degli uffici, si invocano epurazioni di legioni di impiegati in realtà inesistenti, si favoleggia di costose riforme finanziate da eliminazione di una “spesa improduttiva” che poi nessun Ministro o Commissario, arrivato al Governo, mai trova; per la banale ragione che in realtà non ce n’è, o almeno ce n’è, e non poca, soltanto a fronte di come l’amministrazione potrebbe funzionare se si avesse il coraggio di una review organizzativa e non puramente finanziaria. Che richiederebbe però competenze, visione politica, modernità di conoscenze, antideologismo che nella classe partitica ormai scarseggiano paurosamente. Prova ne sia che ogni nuovo Ministro, dopo l’insediamento, finisce regolarmente per chiedere più personale, migliori attrezzature, staff più adeguati, tutte cose espressamente vietate da norme approvate in Parlamento pressoché all’unanimità e che hanno il solo effetto di impedire ogni vera opera di modernizzazione istituzionale.
È di questi giorni, poi, la notizia di una Italia per la prima volta ultima per utilizzo dei Fondi strutturali Europei nella storia di questa politica; rileggere se stessi a distanza di quattro anni e verificare di avere intuito tutto e lanciato l’allarme quando ancora si poteva intervenire (come vedrà chi avrà la pazienza di proseguire queste pagine) non è di nessuna consolazione e gratificazione per un professionista dell’amministrazione. È solo fonte di amarezza.
Quando si parla di spesa pubblica, è necessario distinguere i due differenti concetti di “costo” e di “spesa”: quello che un’Amministrazione “costa” , voce, ahimè rigidissima, che discende dal modo in cui l’amministrazione é organizzata e in cui, conseguentemente, sono allocate le risorse; mentre ciò che l’amministrazione “spende” rappresenta in fin dei conti la realtà delle politiche pubbliche.
Si interviene generalmente – soprattutto nelle fasi concitate in cui il bilancio pubblico va sotto stress, per esempio per la speculazione internazionale – solo sul fattore “spesa”, perché il fattore ”costo” dell’organizzazione complessiva è sempre rigido e impossibile da manovrare nell’emergenza. Ecco quindi che il punto vero di un programma di revisione della spesa pubblica: la riorganizzazione degli uffici.
Ma come bisogna riorganizzare l’amministrazione? Io sono cresciuto sulle pagine di un libro che continuo a considerare non soltanto di straordinaria importanza (secondo me dovrebbe essere testo di esame per chiunque voglia diventare burocrate, e forse anche parlamentare), ma anche bello come un romanzo. E’ un libro di Guido Melis, del 1988, sui “due modelli” di amministrazione pubblica tra età giolittiana e fascismo. In quel libro Guido Melis ci racconta il conflitto fra due diverse idee dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione, condivise da gruppi distinti di politici ed alti burocrati in una fase ben precisa della storia d’Italia; due idee diverse che non erano politicamente neutre, ma dipendevano a loro volta da idee ben precise sull’economia, sulla società, in definitiva sul Paese. E ci racconta come il modello di quelli che allora erano gli innovatori (i “tayloristi della scrivania”), consapevoli che non era più il tempo dell’amministrazione organizzata come l’esercito prussiano, ma di un’amministrazione organizzata come l’impresa fordista (che era il grande salto di qualità nell’efficienza delle grandi organizzazioni della seconda rivoluzione industriale), vinse in un certo pugno di Enti, di amministrazioni separate dallo Stato; ma perse nell’amministrazione ministeriale.
Noi abbiamo, ancora oggi, l’amministrazione centrale ministeriale organizzata come l’esercito prussiano; e corriamo il rischio, se non studiamo abbastanza, di innamorarci di idee organizzative che hanno ballato una sola estate.
Penso all’idea rigida che tutto possa essere controllato attraverso una scomposizione dei ministeri in agenzie “monoprodotto”, che era il modello del new public management; è un’idea rozza, che pure per alcuni anni ha trionfato nella letteratura internazionale; ma che oggi in quelle stesse riviste di letteratura internazionale è considerata del tutto superata. Cito un solo articolo di un paio di anni fa, in cui si sostiene “new public management is dead”, il new public management è morto; oggi è il tempo della multilevel public governance a forte contento tecnologico, che è tutt’altra cosa, richiede altre flessibilità, richiede l’adozione di modelli organizzativi flessibili postfordisti.
Un nuovo paradigma organizzativo per il settore pubblico che, quindi, ci costringe ad una sfida che è estremamente difficile per una ragione ontologica: le nostre Pubbliche Amministrazioni non hanno il minimo di maturità organizzativa e, se non facciamo il salto di qualità organizzativo, non riusciremo mai ad intervenire su quanto costa l’amministrazione, quindi dovremmo sempre più tagliare sul quanto spende, sacrificando le politiche.
Ma su questo viviamo anni nei quali, ancora una volta, la burocrazia non è un monolite, ma è articolata tra innovatori, che portano avanti una nuova idea di amministrazione, e conservatori.
Come si fa, allora, ad intervenire, a spingere l’amministrazione a scegliere fra i possibili modelli organizzativi, risolvendo il conflitto interno agli apparati tra innovatori e conservatori? Serve la politica.
Chi vi parla si riferisce da sempre ad un filone culturale liberal-socialista e gobettiano, i cui maggiori esponenti sapevano mettere a frutto la capacità e la coerenza della migliore cultura politica italiana e della migliore scienza organizzativa, attorno ad alcuni rappresentanti della classe politica italiana e che, dalle fasi di analisi del problema burocratico sulle pagine de “L’Unità” di Salvemini, allo sforzo di Francesco Saverio Nitti, fino all’ultimo grande esponente di questa cultura che è stato probabilmente Ugo La Malfa, ha sempre avuto un’attenzione particolare al presidio che, anche attraverso il Parlamento, la politica deve avere rispetto alla capacità dell’amministrazione di rispondere organizzativamente nell’attuazione del disegno deciso democraticamente. Nulla che si intraveda oggi.
Andiamo a rileggere la discussione sulla messa in stato di accusa del Ministro Trabucchi negli anni ’60, in relazione allo scandalo dei tabacchi brasiliani; ed in particolare l’intervento di Ugo La Malfa, che chiedeva “con dolore”(parole sue), la messa in stato di accusa di questo Ministro, di cui era peraltro personalmente amico. Andate a guardare le osservazioni organizzative che La Malfa fa su come fosse il modello organizzativo dell’Azienda autonoma ad aver consentito un certo tipo di commistioni politiche nelle decisioni tecniche.
Oggi siamo in una condizione in cui, nell’anno “uno” di un settennio decisivo di programmazione europea, il Parlamento non entra nelle questioni organizzative della Pubblica Amministrazione; ritiene normale che, a 6 mesi e più dall’approvazione di una legge che ha ridefinito totalmente l’organizzazione delle strutture italiane della coesione (che devono curare l’utilizzo degli unici 100 miliardi che avremo a disposizione nei prossimi 7 anni per evitare il tracollo di questo Paese) gli atti organizzativi conseguenti non siano stati adottati; tanto che a giugno di quest’anno noi non sappiamo ancora come sarà fatta la struttura di Presidenza che deve assolvere alle funzioni “alte” della programmazione dei Fondi europei, come sarà l’Agenzia che dovrà implementare i progetti attuativi; ma in compenso si è fatto un bando per scegliere il Presidente di un’Agenzia che nessuno sa ancora cos’è, perché a tutt’oggi non esiste nessuna formulazione pubblica, nemmeno oggetto di discussione, sul regolamento organizzativo della tale Agenzia.
Non è nemmeno chiaro cosa l’Agenzia farà in paragone alle tante società pubbliche di progetto che già esistono. Invitalia, il Formez, Studiare Sviluppo, Italia Lavoro, ISFOL, Promuovitalia, sui Fondi europei noi abbiamo una quantità di società per azioni in pubblico comando (come le chiamava Massimo Severo Giannini), che non è ulteriormente sostenibile; non è solo Invitalia, ma è lei più tutte le altre, due, tre, quattro, cinque. E’ il momento che il Parlamento verifichi come sono stati scelti i Direttori generali che “in house” conferiscono queste risorse a queste strutture costosissime. E cosa costoro sanno fare: la progettazione, europea o nazionale, deve venire dalla Direzioni generali, non può venire dalle società in house, ma oggi accade il contrario, per cattiva scelta dei responsabili della committenza ministeriale.
Queste cose il Parlamento non può non controllarle, perché questo è ciò che l’amministrazione costa. Il Formez si prende mediamente il 40%, il 50% delle risorse del Ministero di riferimento, perché quel 40% è quanto il Formez costa (e costa più di un Ministero, ma funziona peggio); solo che poi con l’altro 40-50% prende i tre giovani neolaureati, che vengono mandati presso i Ministeri di riferimento a scrivono veramente i programmi (e che l’amministrazione stessa non può scegliere per qualche cervellotica norma organizzativa apparentemente draconiana ma negli effetti scellerata).
Questa è la realtà dell’Amministrazione, non ci si può aspettare che un Governo possa operare in materia senza il controllo del Parlamento.
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la Pubblica Amministrazione è un sottosistema sociale, non un rotismo esecutivo, non può funzionare a prescindere dal sistema politico, bisogna avere un’idea di qual è la direzione politica in cui si va per poterla far funzionare, e ogni dialettica tra Governo e Parlamento può aiutare a tenere la barra organizzativa del sistema.
Io che appartengo all’ultima generazione che ha davvero studiato Keynes, invece di ipostatizzarlo per farne il nemico e l’origine di tutti i mali, dico che proprio il punto della programmazione delle risorse finanziarie dimostra che così non si può andare avanti; perché programmazione non è una parolaccia, non è il cripto comunismo, è la regola dei Fondi europei che – guarda caso – spendiamo male, ma meglio di qualunque altro Fondo che esista in questo Paese. Perché, quando diciamo che non usiamo bene i Fondi europei, scordiamo come spendiamo i soldi nazionali (quelli delle delibere CIPE, per esempio): ovvero ancora peggio (ci sono soldi di delibere degli anni ’90 ancora in giro).
Noi spendiamo quasi bene i soldi europei, nel senso che li spendiamo malissimo, ma qualunque altra risorsa nazionale la spendiamo molto peggio.
Questo è il punto cruciale del problema della spesa pubblica e della spending review, che deve essere soprattutto organizational review.
Siamo con l’amministrazione alla bancarotta organizzativa, la politica deve rimettere la testa sull’amministrazione e farla diventare una grande questione di cui si discute in Parlamento e con il Parlamento.
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Queste sono le questioni, al di fuori di questo si va in una pura retorica, con la quale noi continueremo con un’amministrazione che costa troppo e proprio per questo è costretta a spendere sempre meno.
27 giugno 2014